Destinazioni - Comune

Pesco Sannita

Luogo: Pesco Sannita (Benevento)
Pesco Sannita (u Pièsc'hë in campano) è un comune italiano di 2.084 abitanti della provincia di Benevento in Campania. Geografia Il territorio comunale è sito in collina, sulla sinistra del fiume Tammaro. La sua escursione altimetrica è pari a 331 metri, con un'altezza minima di 259 m s.l.m. ed una massima di 500 m s.l.m. Ha una superficie agricola utilizzata pari a ettari (ha) 1574,94, dato riferito al 2000 (fonte Camera di Commercio di Benevento, dati e cifre, maggio 2007). Dista dal suo capoluogo di provincia 16 chilometri Evoluzione demografica L’andamento demografico tra il 1697 e il 1857 mostra un progressivo aumento di popolazione. Per esempio, nel 1697 gli abitanti sono 461, nel 1722 sono 706, nel 1736 sono 904, nel 1742 sono 1014, nel 1770 sono 1158, nel 1827 sono 2028, nel 1857 sono 2460. Successivamente, ci saranno cambiamenti come mostrato nel grafico: Abitanti censiti Tipicità Prodotti OLIO Per la produzione di olio spiccano i cultivar ortice che è una tipologia autoctona del territorio presente nella maggior parte del sannio e coltivazioni di ogliarola e leccino. VINO L'allevamento della vite nella zona è molto praticato le varietà più usate sono l'Aglianico grosso detto "aglianicone" vitigno autoctono del sannio, il Piedirosso detto anche "pede e palomma" perché ha il graspo di colore rosso a forma di piede di colombo anch'esso autocotono del sannio, nel corso dei secoli si è ottenuta naturalmente una selezione clonale del vitigno moscato tipica della zona chiamato "muscateglio", negli anni è stata inserita la coltivazione del sangiovese e di altri vitigni tipici di altre zone della Campania come fiano, greco e falanghina. I terroir migliori della zona sono: il cutino e in generale la zona collinare esposta a sud di contrada monteleone CEREALI Tra i cereali coltivati in zona spicca la saragolla localmente detta "sarraolla" che è un'antica varietà di grano duro di colore giallo intenso che arriva dall'Egitto portata nel sannio dalle popolazioni protobulgare Altzec nel 400 d.C. saragolla risulta costituita dalle parole SARGA = giallo e GOLYO = seme e significa letteralmente “chicco giallo”. La stessa varietà che venne scoperta in Egitto e denominata "kamut". La saragolla in loco viene coltivata, molita da un molino locale e panificata, sempre il loco, dando origine al pane locale detto "Pane di Sarraolla" Questo tipo di grano essendo puro senza alterazioni risulta essere più digeribile anche per soggetti con allergie al glutine. Storia Origini Il castello di Pesclum (l'attuale Pesco Sannita) era già esistente al tempo dei Longobardi. Il nome originario, Pesclum o Pescum (grosso macigno, roccia scoscesa), col passare dei secoli si è trasformato in Pesco, Piesco, Lo Pesco, Lo Pesco de la Macza e Pescolamazza, fino ad arrivare all’odierno Pesco Sannita (1947). Raggiunse il suo massimo splendore in epoca normanna sotto la famiglia della Marra da cui prese il nome. Pesco della Marra, poi, per un errore ortografico di qualche scrivano poco esperto, si trasformò in Pescolamazza. Nella prima metà del 1120 Rainulfo, conte di Avellino e di Airola, rispondendo ad un vittorioso attacco portato presso Tufo dal conte Giordano contro Landolfo della Greca, contestabile di Benevento, entrò nella contea di Ariano con l'intenzione di devastare qualcuno dei suoi castelli. Ma, inopinatamente, giunto ai confini di Pesclum, posseduto allora da Gerardo della Marra, se ne tornò indietro senza ingaggiare battaglia. Sembra strano che Rainulfo abbia ammassato circa quattrocento cavalieri ed un gran numero di fanti per fare solo una marcia dimostrativa fino a sotto le sue mura. Evidentemente, però, il castello era così ben fortificato da scoraggiare qualsiasi tentativo di assedio. Rainulfo, per di più, andando via, non devastò né campi né boschi (come di solito si usava fare a quei tempi), probabilmente perché il danneggiamento dell’agro pescolano non avrebbe colpito direttamente ed esclusivamente i Normanni. Sorge così il sospetto che il castello fosse solo una fortificazione normanna avanzata in territorio beneventano. Dopo questo episodio, per oltre un decennio, Pesclum non venne più coinvolto nelle continue ed aspre lotte che interessarono la contea arianese. Verso la fine del 1132, però, il nuovo contestabile di Benevento, Rolpotone di Sant’Eustachio, iniziò ancora una volta ad assalire la cintura di castelli normanni che opprimeva la città e, dopo aver distrutto Farnitum, l’attuale Fragneto Monforte, attaccò Pesclum con l’aiuto di Rainulfo. Anche stavolta l’inespugnabilità del castello, difeso da Roberto della Marra, fece sì che gli assalitori, tolto l'assedio, se ne tornassero a Benevento. Il dominio dei della Marra finì nel 1140, quando, smembrata da re Ruggiero la contea di Ariano, Pesclum, entrato a far parte dei possedimenti del conte di Buonalbergo, fu da questi affidato, insieme ad altri feudi, a Tommnaso de Feniculo che, a sua volta, lo concesse a Guglielmo de Marcia. Il castello, che nel nuovo assetto territoriale aveva perduto tutta la sua importanza militare, ridotto ormai a semplice casale, restò nelle mani della famiglia de Marcia anche sotto le successive dominazioni sveva ed angioina (pagine 11-21 "Storia di Pesco Sannita"). Le successioni feudali dal XV al XIX secolo A partire dagli inizi del XV secolo, e fino all’abolizione della feudalità (prima decade dell’Ottocento), Pesco fu quasi sempre unito a Pietrelcina. Già nel 1415, infatti, queste due terre facevano parte dei beni feudali di Filippo Caracciolo e nel 1458, dopo la congiura dei Baroni, si ritrovarono ancora unite sotto Nicola Caracciolo. Alla morte di quest’ultimo, avvenuta nel 1493, i feudi di Pescolamazza e di Pietrelcina furono ereditati dal figlio primogenito Giovan Battista che ne ottenne solenne investitura dal re di Francia, Carlo VIII, con diploma sottoscritto a Napoli l’8 marzo del 1495. La figlia Dionora, nel 1511, li portò in dote a Giovan Tommaso II Carafa, conte di Cerreto, che, nel 1522, ne vendette le rendite a Carlo Mormile per la somma di 9.000 ducati con il patto di ricompra. Nel 1523, mentre era al servizio di Carlo V a Milano, durante la guerra contro il re di Francia, Giovan Tommaso venne ucciso in duello da Fabrizio Maramaldo. Ereditò il suo titolo e le sue sostanze il primo figlio maschio, Diomede III, che, essendo allora quinquenne, ebbe come tutore il nonno paterno Diomede II. Alla morte di quest’ultimo, Diomede III, dopo essere stato per un certo tempo sotto la tutela di un non meglio precisato "priore di Napoli", sposò, ancora adolescente, Roberta Carafa che gli fece anche da tutrice. E nel 1537, con l’assenso di sua moglie, fu proprio lui a disfarsi definitivamente dei feudi di Pesco e Pietrelcina vendendone a Bartolomeo Camerario (1497-1564), per 5.000 ducati, il diritto di riscatto di cui era ancora titolare. Questi, a sua volta, nel 1550, alienò i due feudi a Lucrezia Pignatelli, moglie di Giovan Vincenzo Caracciolo. Alla morte di quest’ultimo subentrò il figlio Marcello che pagò la tassa di successione (relevio) il 19 ottobre del 1564. Marcello, nominato marchese di Casalbore da Filippo II di Spagna il 27 aprile del 1569, cessò di vivere nell’agosto del 1585 lasciando il primogenito Giovan Vincenzo II erede del suo titolo e delle terre di Casalbore, Ginestra degli Schiavoni, Pietrelcina, Pescolamazza, Torre di Pagliara, Saggiano e di alcuni territori feudali nei pressi di Montesarchio. Giovan Vincenzo II, nel 1603, diede le terre di Pescolamazza e di Pietrelcina al fratello Francesco per la somma di 50.602 ducati col patto di ricompra. Successivamente, nel 1614, su richiesta dei creditori del marchese di Casalbore, il tribunale del Sacro Regio Consiglio aggiudicò questi due feudi, per la somma di 46.200 ducati, a Giovanni d’Aquino che, nel luglio del 1623, ebbe il titolo di principe di Pietrelcina. Alla morte di Giovanni, avvenuta il 4 marzo del 1632, subentrò il primogenito Cesare che, con assenso regio del 9 febbraio 1661, diede in pegno al fratello Francesco la terra di Pescolamazza per la somma di 11.000 ducati. Cesare fu assassinato il 27 febbraio del 1668, all’età di 43 anni. L’8 marzo del 1669 fu dichiarata erede dei suoi beni feudali la figlia Antonia. Nel 1676, però, con decreto del Sacro Regio Consiglio, la terra di Pietrelcina fu assegnata a Girolamo, fratello di Cesare. Comunque, alla morte di Francesco e di Girolamo d’Aquino, Pescolamazza e Pietrelcina ritornarono alla loro nipote Antonia con l’aggiunta del feudo di Monteleone che, nel frattempo, Girolamo aveva acquistato da Giacomo II de Brier. Dopo la morte di Antonia, avvenuta senza eredi il 6 settembre del 1717, Ferdinando Venato, duca di S. Teodoro, suo parente di quarto grado, le subentrò nel 1724 previo pagamento al fisco di 20.200 ducati. Poco tempo dopo (30 aprile 1725) il duca di S. Teodoro vendette questi tre feudi, per la somma di 75.000 ducati, a Francesco Carafa che, con diploma spedito da Vienna il 17 novembre del 1725, ottenne il titolo di principe di Pietrelcina dall’imperatore Carlo VI d’Austria. Francesco Carafa morì il 9 gennaio del 1768; ma solo il 20 novembre del 1772, con decreto della Gran Corte della Vicaria, fu dichiarato erede dei suoi beni feudali Pietro Maria Firrau, principe di Luzzi. Dopo la morte di quest’ultimo, avvenuta il 24 novembre del 1776, fu riconosciuto erede il figlio Tommaso Maria con decreto della Gran Corte del 21 gennaio del 1777. A partire dal 1779 entrò in possesso di questi beni feudali Luigi Carafa di Milizia della Stadera alla cui morte subentrò il conte di Policastro e duca di Forlì, Francesco Carafa, che fu l’ultimo barone di Pesco (pagine 25-28 "Pesco Sannita. Storia di un millennio"). Rapporto con Monteleone Monteleone è oggi una frazione di Pesco Sannita. In realtà la storia narra che inizialmente, fino al momento della sua unione al feudo di Pescolamazza sotto Antonia d’Aquino, ebbe vita autonoma. La sua nascita risale probabilmente al periodo della dominazione sveva. Secondo antichi documenti, il castello avrebbe dovuto essere annesso al territorio beneventano per renderne più sicuri i confini. Ma già nel 1269 era entrato a far parte del regno angioino. Probabilmente abitato a quel tempo da non più di venti famiglie, dopo alcuni passaggi di proprietà, Monteleone ritornò al suo legittimo proprietario, Alferio. In epoca angioina vi sono scarse notizie. Dopo circa due secoli, durante i quali Monteleone si spopolò completamente, se ne ritrovano tracce nella seconda metà del Quattrocento, quando lo acquistò Marcantonio Calenda la cui famiglia ne rimase proprietaria fino al 1616, anno in cui fu rilevato da Giovan Geronimo Nani, nobile savonese. Nella prima metà del Seicento il feudo, con tutte le sue pertinenze, passò nelle mani di Giovanni de Brier, il cui nipote, Giacomo II, lo vendette a Girolamo d’Aquino. Cosicché, morti Francesco e Girolamo d’Aquino, Monteleone si trovò, come già detto, unito a Pescolamazza sotto la nipote Antonia, loro erede universale (pagine 27-30 "Storia di Pesco Sannita"). La popolazione dal XVI al XVIII secolo Alla fine del XVI secolo, cominciano ad aversi notizie riguardanti direttamente il popolo pescolano e le sue condizioni di vita: una pergamena del 1577 contiene, ad esempio, un elenco consistente di cittadini che permette di risalire alle radici di molte famiglie e di seguire i mutamenti grafici dei principali cognomi pescolani. Agli inizi del Seicento, a causa della pressione fiscale, Pesco si era indebitata al tal punto da essere costretta a vendere al barone dell’epoca Giovanni d’Aquino i due forni (Castello e Valle) e la taverna. Da questo atto di compravendita nacque una lunga controversia giudiziaria che si trascinò fino agli inizi dell’Ottocento. Tra i fatti notevoli del XVII secolo bisogna ricordare anche la partecipazione del cosiddetto marchese di Pesco (in realtà principe di Pietrelcina già citato d’Aquino) alla lotta contro i popolani di Napoli al tempo della rivoluzione di Masaniello (1647-1648). La parte centrale del XVII secolo è dominata dall’infuriare della peste che, nel 1656, decimò i pescolani, tanto che il 20 ottobre del 1657, data in cui il nuovo parroco Don Domenico Palumbo prese possesso della chiesa, la popolazione contava appena 230 anime. Nella parte centrale del Settecento, invece, la popolazione contava un migliaio di abitanti, ma con un analfabetismo che raggiungeva circa l’80% per gli uomini (con l’esclusione della categoria dei sarti) e il 100% delle donne. Malgrado lo sfruttamento sistematico al quale la popolazione era sottoposta, il tenore di vita di Pesco, rapportato al periodo storico, era divenuto accettabile. Queste condizioni favorevoli si mantennero per lungo tempo: verso la fine del secolo la popolazione aveva raggiunto le 1636 unità. (pagine 31-48 "Storia di Pesco sannita") L’Ottocento I rapporti tra feudatario e popolo pescolano, già tesi in precedenza, si logorarono ulteriormente dopo la rivoluzione napoletana del ’99. Luigi Carafa, barone dell’epoca, cercò di far leva sul sentimento religioso, facendo rinnovare nel 1801 la concessione di indulgenza plenaria per la cappella del SS. Rosario, ottenendo anche dal Papa l’istituzione della via crucis nella chiesa del SS. Salvatore. Nel 1802, infine, donò al popolo di Pescolamazza il corpo di Santa Reparata martire ricevuto a Roma dal cardinale Benedetto Fenaja. Ma nonostante tutto, subito dopo l’emanazione del decreto di Giuseppe Bonaparte che aboliva la feudalità, il comune di Pescolamazza, assistito dall’avvocato Antonio Vitale, chiamò in giudizio il suo successore Francesco Carafa conte di Policastro e duca di Forlì. Gli si contestava l’esazione di una certa cifra di ducati annui su proprietà di cui non esistevano i relativi “strumenti” (documenti), la pretesa del terraggio sull’intero territorio e il pagamento di alcune somme al comune. Il comune vinse sulla maggior parte delle richieste effettuate, ma al momento della divisione dei demani, non si poté rendere esecutiva la sentenza perché il barone affermava che Monteleone era un feudo distinto e separato che non si poteva ripartire. Ma Winspeare, regio procuratore generale sostituto presso la Gran Corte di Cassazione, capovolse la situazione, legittimando la tesi sostenuta dal comune. A questo punto, il conte di Policastro, sentendosi battuto, si rivolse direttamente a Winspeare, chiedendo una breve sospensione per avere il tempo di esibire alcuni documenti comprovanti i suoi diritti. Dopo l’incontro con l’ex barone, Winspeare, inaspettatamente, rimise la questione. Intanto, l’agente del barone stava cercando di impedire la ripartizione corrompendo l’incaricato; fu così che il sindaco presentò a nome del comune un atto di rinuncia al beneficio della divisione. Ma l’agente del barone, Ferdinando Cini, fece ricorso all’inganno e alla violenza: approfittando del fatto che erano suoi ospiti l’intendente Mazas e il comandante della provincia, fece convocare a casa sua i rappresentanti del comune. Poi simulò il loro rifiuto a presentarsi, per cui i due funzionari ne ordinarono l’arresto immediato. In carcere i custodi sottoposero gli arrestati a “maltrattamenti e villanie inaudite”. Il rappresentante comunale continuò comunque l’operazione di misurazione del feudo e a partire dal gennaio 1812 ordinò di procedere alla divisione. Ma essa fu ostacolata con ogni mezzo: i periti furono minacciati di morte e i rappresentanti del comune furono insultati. Nel frattempo il conte di Policastro aveva aggirato l’ostacolo. Un regio decreto del 27 dicembre 1811 aveva tolto al commissario del re il compito di decidere sulla questione e l’aveva affidato all’intendente della provincia, in questo caso il Mazas. Come già visto, quest’ultimo parteggiava apertamente per il conte di Policastro ed emise un’ordinanza definitiva in cui dichiarava che l’ex feudo di Monteleone, essendo distinto e separato dal territorio di Pescolamazza, non era ripartibile a vantaggio dei cittadini pescolani: anzi, tre rappresentanti della cittadinanza che volontariamente avevano operato le misurazioni, furono prima perseguitati e poi condannati ad una multa. Alcuni cittadini nel frattempo avevano pensato ad un ricorso, ma per problemi vari non se ne fece nulla. È da notare che di questo “affare” si era addirittura occupato Gioacchino Murat in persona, nella riunione del Consiglio dei Ministri del 3 agosto 1812. Comunque la vittoria del conte di Policastro fu totale e definitiva. Grande fu il senso di sfiducia della popolazione verso le autorità. Altre azioni legali furono intraprese negli anni, sempre terminate a vantaggio della famiglia Carafa. Solo nel 1853, per il mutato orientamento legislativo in materia feudale, e non certo per merito di quelle sfortunate azioni legali, i Carafa concessero in enfiteusi perpetua al comune di Pescolamazza l’ex feudo di Monteleone, che fu finalmente “quotizzato”, operazione terminata nel 1870. Le fasi conclusive della divisione del demanio si intrecciarono con le vicende connesse all’unità d’Italia. Alcuni documenti testimoniano in tutto il circondario di Pescolamazza una situazione completamente sotto controllo, con cittadini tranquilli, sereni e “plaudenti” verso il Governo. Ma al momento opportuno, anche Pescolamazza aderì al centro insurrezionale vitulanese, offrendo un gruppo di uomini armati che avrebbero ingrossato le fila del corpo garibaldino dei “Cacciatori Irpini”. A differenza dei paesi vicini, Pesco fu appena sfiorato dal brigantaggio che infuriò tra il 1860 e il 1880 in tutta la provincia. L’unico episodio di cui si trova traccia riguarda l’assassinio di un garzone pescolano (Filippo Pennucci), che lavorava insieme al figlio Giuseppe, alle Camerelle, in territorio beneventano. Il brigante Michele Caruso, dopo un duro scontro con i soldati a Francavilla, si rifugiò con la sua banda proprio in questa masseria e con due fucilate uccise il suddetto Pennucci, malmenandone poi il figlio. (pagine 49-63 "Storia di Pesco sannita") Storia amministrativa Pescolamazza, per la sua posizione geografica, ebbe una certa importanza nell’assetto amministrativo ottocentesco. Già a partire dal 1812, infatti, fu scelto come capoluogo del circondario al posto di Fragneto Monforte e mantenne questa sua prerogativa anche dopo la nascita della provincia beneventana, divenendo sede di pretura, di carcere mandamentale e di ufficio di bollo e registro, fino al 1889. Malgrado, però, questa sua posizione privilegiata ed il notevole sviluppo demografico ed edilizio, Pescolamazza mancava delle opere essenziali per la salute pubblica e per le comunicazioni. Solo nel 1832 l’amministrazione comunale mise in bilancio la costruzione di due acquedotti per portare nell’abitato le acque di Romito e dell’Acquafresca. Stabilì, inoltre, di stanziare la somma di centocinquanta ducati annui, fino al completamento dell’opera, per costruire una strada rotabile di circa due miglia tra la cappella dell’Arco e Vallone Pilone che consentisse uno spostamento più agevole. I nuovi acquedotti furono completati nel 1837 ma non abbiamo nessuna notizia circa la progettata strada. Un altro problema da affrontare fu quello della costruzione del cimitero. Già tempo prima era stato scelto un appezzamento di terreno in contrada del Fornillo. Frattanto sembrava che la zona non fosse più adatta, anche se una disposizione del re proprio di quei giorni, proibì le inumazioni in chiesa; poiché il corpo insepolto di una ragazza giaceva lì da due giorni, si decise che una piccola porzione di quel terreno fosse utilizzata temporaneamente. Non si conosce né la durata di questa sistemazione provvisoria, né l’anno in cui fu decisa l’edificazione dell’attuale cimitero. Inoltre solo nel 1856 fu stanziata una somma per la costruzione della strada di collegamento con il paese. Questi ritardi contribuirono a deteriorare le già precarie condizioni igieniche del paese: Pesco nel 1846 fu tra i pochi comuni del Principato Ultra colpiti dall’epidemia di vaiolo. Il problema delle comunicazioni fu risolto, almeno in parte, con la costruzione della strada Valfortore (l’attuale SS 212) e della linea ferroviaria Benevento-Campobasso-Termoli. In realtà Pescolamazza era stato escluso inizialmente dal tracciato della Valfortore. Fortunatamente, un consigliere provinciale propose di costruire a spese delle provincie “la strada per Val Fortore” che partendo dal luogo detto i “Mosti” passa per Pescolamazza e San Marco dei Cavoti. Secondo questa proposta, quindi, la via avrebbe dovuto attraversare Vallone Pilone. Quando poi si passò al progetto vero e proprio il tracciato venne notevolmente allungato per comprendere anche Pietrelcina. Un altro importante momento per la storia pescolana fu la costruzione della linea ferroviaria Benevento-Campobasso-Termoli, inaugurata nel tratto Pietrelcina-Pescolamazza il 12 febbraio 1882. Purtroppo, a causa della posizione non centrale della stazione, il paese rimase alquanto isolato fino alla metà del nostro secolo (pagine 63-66 "Storia di Pesco sannita") Monumenti e chiese Alla fine del Seicento a Pesco c’erano, oltre al SS. Salvatore e a San Nicolò, altre due chiese (S. Croce e S. Rocco) ed un oratorio (S. Maria dell’Arco). Un’altra chiesa (S. Maria a Tamele) si trovava nel feudo di Monteleone. Dopo il terremoto dell’8 settembre 1694 le chiese di S. Maria a Tamele e di S. Rocco, irrimediabilmente danneggiate, furono chiuse al culto. Agli inizi del Settecento, poi, furono lasciati in abbandono anche S. Croce e l’oratorio di S. Maria dell’Arco. Quest’ultimo, meglio noto come “la Cappella”, riaperto al culto nell'Ottocento, fu abbellito esternamente con un dipinto di Francesco Maio (ufficiale postale dell’epoca) e con un Cristo crocifisso scolpito in legno da un contadino pescolano (Giandomenico Pennucci). Il quadro, però, la cui parte inferiore rappresentava Piazza Gregaria (l’attuale Piazza Umberto I) con sullo sfondo via Cappella e Casale S. Antonio, è stato ormai quasi completamente deteriorato dalle intemperie. Il Cristo ligneo, invece, è stato distrutto durante i lavori di messa in opera delle baracche per i terremotati del 1962. La chiesetta, ricaduta in abbandono nei primi decenni del Novecento, è stata fatta restaurare da don Nicola D’Addona nel 1977. Nessuna delle altre antiche chiese pescolane è giunta integra fino a noi. Di S.Croce e di S. Rocco, infatti, si sono perse completamente le tracce. La chiesa di S. Nicolò, poi, lasciata in abbandono poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, è stata demolita nella primavera del 1971. La chiesa del SS. Salvatore, infine, ristrutturata una prima volta verso la fine dell'Ottocento da don Giandonato Orlando, modificata intorno al Novecento dal suo successore don Domenico Sabella, ampliata tra il 1921 ed il 1924 da don Emilio Parrella, è stata completamente rifatta da don Nicola D’Addona, sulla base di un progetto ideato insieme al fratello Ing. Luigi ed inaugurata nel 1968. La costruzione, pur apparendo a prima vista come un complesso architettonico progettato ex novo, conserva, armonizzandoli pienamente, i segni delle ristrutturazioni precedenti (basti pensare alla presenza contemporanea di archi a sesto acuto, a tutto sesto e di architravi). L’unica parte della chiesa che non ha subito modifiche è l’ex cappella di S. Reparata che, però, è stata trasformata in sacrestia. Molto più recente, infine, è l’Oratorio di Maria SS. Addolorata e di S. Giuseppe, fatto edificare da Pasquale De Simio in un fondo di sua proprietà e ultimato nel 1840. (pagine 31-38 "Storia di Pesco sannita") Dialetto Caratteristiche -Molto caratteristica è la trasformazione delle sillabe scia- scio- sciu- di alcune parole napoletane (fia- fio- fiu- in italiano) in hia- hio- hiu- con l’h aspirata (nap. sciato=fiato pesc. hiato oppure nap. sciummo=fiume pesc. hiumo). -Nel dialetto pescolano la o finale assume un suono intermedio tra la o e la u quando la parola viene presa singolarmente o si trova alla fine di una frase, mentre diventa decisamente u quando sta al suo interno. La pronuncia della z è sempre sorda (come in marzo) tranne che dopo la n (‘nzèngale cunzèreva), davanti ai dittonghi ia ie io iu e in alcuni vocaboli (manazzèo zechetià zurro) dove diventa sonora. La s davanti a tutte le consonanti (fatta eccezione per d e t) si pronuncia come il digramma sc. -Alcune parole maschili hanno un plurale al femminile (anéglio=anello pl. Anèllure - carro pl. Carre - osso pl. Òssere - óvo=uovo pl. Òve - pertuso=buco pl. Pertóse - pùzzo=pozzo pl. Pùzzere). -Nel plurale alcuni vocaboli in dialetto pescolano conservano ancora tracce evidenti del genere neutro; ad esempio, gli aggettivi tanto e quanto si trasformano al plurale in quanta e tanta (neutro plurale latino di quantum e tantum). -Gli infiniti dei verbi della prima coniugazione italiana e di quelli piani della seconda diventano tronchi per la perdita di -re finale (abbicinà=avvicinare, tené=tenere). Quelli sdruccioli della II^ coniugazione e quasi tutti quelli della terza, invece, assumono la forma della terza persona singolare dell’indicativo presente (es. chiòve al posto di chiòvere=piovere, fenìsce al posto di fenì=finire). I verbi riflessivi diventano tutti sdruccioli, tranne qualche rara eccezione come arrènnerese = arrendersi, cèrnerese= ancheggiare e spégnerese = sciogliersi che sono bisdruccioli. Quelli della prima coniugazione, infatti, terminano in -àrese, quelli della seconda in -èrese e quelli della terza in -ìrese. I gerundi, infine, finiscono sempre in -ènne (mentre nel napoletano in -ànno quelli della I^ coniug. ed in -ènno tutti gli altri). Termini dialettali Accunzà : v. tr. 1) aggiustare 2) condire Proverbio: l’óssu vécchio accònza la menèstra (l’osso vecchio condisce la minestra, cioè per risolvere i problemi ci vuole l’esperienza degli anziani). Bòsso : s. m. neologismo importato dai primi Pescolani emigrati negli Stati Uniti d’America. Venne adoperato, specialmente tra il primo e il secondo dopoguerra, per indicare il padre nei discorsi con terzi da quanti non erano ancora disposti a ricorrere al termine papà, ritenuto un’esclusiva delle famiglie di ceto più elevato. Analogamente con la parola bòssa si indicava la madre. Etim. dall’ingl. boss . Cùccio : s. m. coniglio. Fìcura : s. f. fico (albero o frutto) /Varietà locali: Ficus carica serotina (fìcura natalèse), Ficus carica fasciata (fìcura zengarella), Ficus carica verdecchius (fìcura verdesca). “A la fìcura!” era una minaccia che si faceva ai cani ed equivaleva a dire “Ora ti ammazzo!”. Anticamente, infatti, si usava seppellire questi animali sotto gli alberi di fico per concimarli. Ócchio : s. m. occhio / Fa l’ócchio: far passare il mal di testa provocato dal malocchio. A questo scopo basta versare una goccia d’olio in un piatto pieno d’acqua, fare con il pollice della mano destra un segno di croce sulla fronte del malato e recitare la formula magica:”Lunnedì santu, martedì santu, mercudì santu, giovedì santu, vernedì santu, sabbetu santu… Duméneca è Pasqua e l’ócchiu casca”. La formula in realtà viene borbottata per evitare che gli astanti riescano a comprenderne le parole (solo durante la notte di Natale, infatti, può essere detta chiaramente a quelli che vogliono impararla). Lo scongiuro riesce solo se la goccia d’olio si allarga fino ad occupare l’intera superficie dell’acqua. Il modo, poi, con cui l’olio si spande nel piatto permette anche di scoprire il sesso dell’autore della fattura. Se infatti la goccia allargandosi assume la forma di una collana (cannàcca), se cioè la sua circonferenza si ricopre lungo tutta la linea di minute goccioline, si può essere certi che il malocchio è stato fatto da una donna. Proverbio:Accattà l’óglio pe’ fa’ l’ócchio (Comprare l’olio per togliere il malocchio, cioè appena qualche goccia): essere spilorcio. Parénti : s. m. pl. 1) Chiazze rosse che si formano sulle gambe per eccessiva vicinanza al fuoco del camino. 2) Consanguinei e affini. Proverbio: I parénti sóngo cum’a li stivali, cchiù stritti sóngo e cchiù fann male (i parenti sono come gli stivali, più sono stretti e più fanno male. Pasquabifanìa : s. f. Epifania. Pasquabifanìa tutte le fésti se porta via. Dice Sant’Antóno:“Aspetta ca ce sta la mia!”. Con l’arrivo dell’Epifania non finiscono tutte le feste: prova ne sia che solo qualche giorno dopo, il 17 di gennaio, già si festeggia S. Antonio Abate. Rape : v. tr. Aprire. Proverbio: Chi te sape te rape (chi ti conosce ti apre, cioè viene a rubare da te solo chi frequenta la tua casa). Sarecarèlla : s. f. piccolo cespuglio, riferito solitamente alle piante che crescono nei corsi d'acqua. Spulepà : v. tr. Spolpare. Te sî mangiata la carne, mó' spólepete l’ ósso: ti sei mangiata la carne, ora spolpati l’osso (hai dissipato tutte le tue sostanze, adesso arrangiati). Strùmmulo: s. m. Trottola di legno. Lo strùmmulo, a forma di pera rovesciata e dotato nella sua parte inferiore di una punta di ferro, viene lanciato e fatto girare per mezzo di una cordicella arrotolata intorno ad esso a partire quasi dall’estremità della punta fino a circa metà della sua parte in legno. Il lancio, una volta impugnato l’attrezzo con la punta rivolta verso l’alto e poggiata nell’incavo tra indice e pollice, avviene alzando e portando all’indietro il braccio e subito dopo muovendolo velocemente in avanti e verso il basso. A questo punto, effettuata una rapida torsione del polso, la mano che lo stringe viene aperta e contemporaneamente la cordicella tirata all’indietro per mezzo di un occhiello che, praticato alla sua estremità libera, è stato infilato in un dito. Il gioco, ormai da tempo caduto in disuso, si faceva a Pesco, in contrada S. Giuseppe, in occasione della festa del santo, cioè il 19 di marzo, sin dagli inizi degli anni quaranta del diciannovesimo secolo, epoca in cui era stata aperta al culto l’omonima cappella. Esso, destinato ad un numero indeterminato di persone, consisteva nel lanciare uno per volta l’attrezzo in un cerchio (detto póce) tracciato incidendo semplicemente il terreno con uno stecco o, nei casi più elaborati, facendo uso di polvere di gesso. I lanci continuavano fino a che lo strùmmulo di uno dei giocatori, alla fine della sua rotazione, non restava all’interno del cerchio. A questo punto gli altri lanciavano a turno i loro attrezzi su quello restato prigioniero cercando di spingerlo fuori o di spaccarlo. E proprio per scongiurare questa seconda eventualità si usava a volte proteggerlo con delle bullette da scarpa (le cosiddette centrelle). Tarantéglio : s. m. Ghiacciolo a forma di stalattite che durante le notti invernali si genera per rapido congelamento delle gocce d’acqua che cadono dal tetto innevato. Etim. probabilmente il riferimento alla tarantella è dovuto al fatto che quando questi ghiaccioli si formano, l’unico modo che si ha per vincere il freddo è quello di saltellare). Ucculàro : s. m. Guanciale del maiale. Amministrazione Ha fatto parte della Comunità Montana zona del Fortore fino al 2010. Appartiene alla Regione Agraria n. 4 - Colline del Calore Irpino inferiore. Note ^ Dato Istat - Popolazione residente al 31 dicembre 2010. ^ AA. VV., Dizionario di toponomastica. Storia e significato dei nomi geografici italiani, Milano, GARZANTI, 1996, p. 484. ^ Statistiche I.Stat - ISTAT; URL consultato in data 28-12-2012. Bibliografia Antonio Iamalio, La regina del Sannio, ed. Ardia, Napoli, 1918. Mario D’Agostino, Storia di Pesco Sannita, fratelli Conte Editori, Napoli, 1981. Mario D’Agostino, Dizionario Pescolano, Arte Tipografica Editrice, Napoli, 2004. Mario D'Agostino, Pesco Sannita. Storia di un millennio, Vereja Edizioni, Benevento, 2009. Voci correlate Comunità Montana del Fortore Altri progetti Commons contiene immagini o altri file su Pesco Sannita Collegamenti esterni Tutto sul paese
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