Il reggae è Patrimonio Unesco, musica contro l’intolleranza
La musica reggae è patrimonio immateriale dell’umanità protetto dalle Nazioni Unite perché con «il suo contributo al discorso internazionale su questioni di ingiustizia, resistenza, amore e umanità sottolinea la portata socio-politica e spirituale del genere», come viene riportato nella motivazione ufficiale.
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È da tempo che l’UNESCO si dedica alla valutazione e alla protezione di beni immateriali. Decine di anni fa ha iniziato a farlo raccogliendo una serie di registrazioni sulle musiche etniche, la Collezione Unesco, in cui si poteva accedere a magnifici volumi dedicati a musiche scomparse che si trovavano nelle librerie.
All’interno di questa linea, con la spettacolarizzazione della musica, partecipano strutture musicali sempre più grandi, tra cui il reggae. Questo genere musicale con gli effetti emotivi che comporta ha veicolato messaggi ideologico-religiosi di altissimo profilo. La celebre “No woman no cry” di Bob Marley è, ad esempio, prima di tutto un inno religioso.
Origini del reggae
Facciamo un passo indietro: negli anni ’50 il rhythm ’n blues e il rock & roll trasmessi dalle stazioni radio di New Orleans e Miami influenzarono i giovani giamaicani di Kingston, che a questi generi amalgamarono il calypso, il rumba e il mento (una musica tradizionale giamaicana), fino allo ska, che si sviluppa sull’Isola negli anni ’60, e al rocksteady, una sorta di ska più lento e dalle influenze soul, che scomparse verso la fine degli anni ’60 per evolversi nel reggae.
Sono gli anni in cui la Giamaica otteneva l’indipendenza dal Regno Unito (1962) e questa promiscuità di musiche e ritmi veniva riprodotta dai sound systems, furgoni sui quali i dj caricavano impianti stereo girando l’isola.
In questo contesto nasce il reggae, con solo come musica di meditazione legata all’uso delle droghe leggere, ma come costume nazionale, come modo di essere. Il reggae ha avuto una figura d’alterazione importante come quella di Bob Marley, con la sua geniale sintesi di stili musicali, da una parte, e tutto il mondo dub dall’altra - genere suonato in dance hall sempre più affollate – riscontrando una diffusione planetaria assimilabile a quella del tango.
La diffusione del reggae, musica e cultura
Il reggae è un andamento ritmico che si piega facilmente a mille usi. Negli anni ‘70, ‘80, ma ancora oggi, è diventato immediatamente riconoscibile ed è stata innestato in altri generi: basti pensare ai dischi dei Police o a Frank Zappa, per prendere due esperienze antipodali, o a Joe Cocker.
Al tempo stesso questa stagione musicale è diventata una manifestazione ideologica: è nato un vero e proprio movimento politico e religioso, quello dei rastafariani. Questo movimento risale agli anni ’30 ma viene conosciuto successivamente grazie a Peter Tosh e Bob Marley che con la loro musica ne hanno veicolato i contenuti toccando più continenti.
Il reggae, come il blues, diventa sinonimo di musica per oppressi, di rivendicazione razziale e culturale. Un genere così promiscuo che penetra immediatamente negli altri generi, uno stile che ha da una parte una sua identità politica e dall’altra una grandissima duttilità legata al ritmo in levare (si batte su ritmi dispari, quindi ritmi particolarmente adatti alla danza).
In Italia sono numerosi i gruppi contemporanei che ancora oggi si ispirano ai ritmi e alla cultura giamaicana del reggae. Un genere che lega i Sud del mondo: in Salento sono nati i Sud Sound System, a Napoli gli Almamegretta, per citarne qualcuno, o Alborosie, siciliano nato a Marsala e naturalizzato giamaicano.
Perché il reggae ha questo tipo di effetti? Stare nel groove
In un bellissimo studio di Steven Feld, “Estetica come iconicità dello stile”, si parla dell’importanza del groove. Il groove è un’espressione ampia che va dal soul al reggae, ai diversi sound, e trova negli anni ‘60 varie figure di riferimento: le più importanti James Brown e Aretha Franklin, che per la prima volta introducono la parola groove nelle loro canzoni.
Il groove è il ritmo in cui le cose vanno bene, in cui le cose sono giuste, è riconoscere dei cicli ritmici condivisi. In inglese il termine significa anche solco, in riferimento ai 45 giri su cui si posava la puntina che diffondeva nello spazio non solo la musica ma la giusta atmosfera. Lo stesso è successo con il reggae e in particolare con quella stagione del reggae che è stata la dub music, iniziata negli anni’60, in cui si prendevano basi reggae e si creava questo tipo di clima.
Stare nel groove vuol dire stare bene, essere protetti da un ritmo, avere un’identità e imparare a riconoscere le varianti rispetto a questo ritmo. Se ascolto molto reggae mi abituato a riconoscere il reggae anche in altri generi. Il groove denota disinvoltura e rilassatezza, qualcosa che è scorrevole e senza sforzo, come nell’accezione grooving. In senso fisico il groove ti mantiene in gamba, in africa occidentale molti chiamano l’erba groove e il fumarla grooving.
Nel reggae vi sono una serie di strutture all’interno delle quali uno stile musicale non è più una struttura astratta ma un qualche cosa che pulsa e va verso la vita, cerca la vita, la trova e la rimanda dentro la musica. Ecco perché il reggae è patrimonio UNESCO. Questo concetto vale per ogni musica e per questo va protetta.
Festival reggae da non perdere in Italia nel 2019
- Zion Station Festival, dal 20 al 23 giugno a Gambulaga, in provincia di Ferrara
- Bababoom Festival, dal 17 al 22 luglio a Marina Palmense, in provincia di Fermo
- Roots & Culture Reggae Festival, dal 25 al 28 luglio, Lignano, in provincia di Udine
ViaggiArt ringrazia Carlo Serra
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