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Viaggio di fede fra la passione e l’esultanza di un popolo: il Venerdì Santo a Vico del Gargano

Scritto da Redazione , 23/03/16

I riti della Settimana Santa e della Passione sono da sempre alcune delle tradizioni più importanti dei piccoli borghi e paesi italiani. Quest’anno noi di ViaggiArt abbiamo scelto di raccontarvi una tradizione in particolare, quella del Venerdì Santo a Vico del Gargano, attraverso le parole e le immagini di Francesco Saggese, che ospitiamo volentieri sul nostro blog. Eccovi il suo viaggio.

di Francesco A. P. Saggese

È ancora mattino presto quando alcune donne del paese, chiudendo piano alle loro spalle la porta della propria casa, si recano in silenzio alla Chiesa Madre, dove ad attenderle, avvolta in un pregiato tessuto proveniente dalla Spagna e lavorato dalle mani di questa terra, c’è Lei, l’Addolorata. ‘Ai tuoi piedi, o bella Madre’ canteranno queste donne di paese accompagnandola in processione, mentre verrà portata a spalla su un baldacchino di legno solo da alcuni uomini. È possibile scrutarla tra gli antichi vicoli del borgo, quasi impaziente, fuggitiva, alla ricerca disperata di suo Figlio,  guidata come da un presagio oscuro, una profezia.

È ancora presto a Vico del Gargano, sul Promontorio pugliese, annoverato tra i borghi più belli d’Italia, adagiato su una collina tra la le faggete della Foresta Umbra e il mare dell’Adriatico, ma è già il Venerdì Santo, il giorno più atteso dai vichesi.

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E mentre questa piccola processione cammina, gli uomini di ogni età, appartenenti alle cinque antiche confraternite del paese, si preparano a indossare i loro camici di lino bianco, benedetti e senza macchia, adornati da preziosi merletti: si legheranno al petto un cordone a forma di croce e si cingeranno il capo con un fazzoletto bianco su cui porranno una corona di spine di rovi.

Ognuno si recherà nella chiesa della propria confraternita da dove prenderanno il via altre cinque processioni che, percorrendo i vicoli labirintici del centro storico, andranno a fare visita ai ‘Sepolcri’ delle undici chiese del paese. Nella notte precedente erano rimasti spalancati ai visitatori, vegliati dal solo canto de l’ ‘Uffizio della Settimana Santa’ dei confratelli, alla luce di un candelabro composto da quindici candele che qui chiamano herice, candele che saranno spente una dopo l’altra fino a fare buio.

Ogni processione ha il suo cammino lento, ognuna ha la sua ‘Madonna’, ognuna ha il suo Cristo, mentre un canto tenebroso e mesto viene intonato dai confratelli. È il canto del Miserere, uno dei protagonisti di questa giornata, è sua la musica che si ode forte per i vicoli, che riempie le gole e intimorisce i cuori, anche quelli del viaggiatore che è capitato lì per sentito dire. Questa musica si amplifica, come fosse un terremoto, quando i cortei dei confratelli s’incrociano indifferenti uno  all’altro, perché c’è solo da urlare più forte il Miserere mei Deus, mentre dall’alto dei loro fercoli, le ‘Madonne’, come delle regine di altri tempi, dominano la scena vestite a lutto. Una confraternita porterà con sé anche i misteri della passione, e contrariamente alle altre avrà un camice marrone, un cingolo bianco, una mozzetta chiara.

In tutto il mattino del Venerdì Santo, fino al tardo rientro delle confraternite dall’ultima chiesa di Santa Maria degli Angeli del Convento dei Cappuccini, Vico è come posseduta da queste note di dolore; un dolore che continuerà a lungo e che alle tre di pomeriggio, nella chiesa del Purgatorio, si farà Parola nelle Tre ore di Agonia, con il commento del predicatore alle sette parole di Gesù sulla Croce. Un momento proceduto dalla messa dei “presantificati”, quella con le ostie consacrate il giorno prima e che i vichesi dicono “pazza”, perché è un giorno in cui non c’è più ordine nemmeno nel rito liturgico ordinario. Ma quel dolore, nelle ore successive, si farà ancora più lancinante e dovrà trafiggere il cuore, come fanno le spade che le Madonne di Vico portano conficcate nel loro petto.

Si farà ancora più cupo, più potente nella processione della sera verso il Calvario, quando tutte le confraternite si riuniscono in un unico lungo corteo cantando autonomamente il Miserere, separate solo da una croce di legno con i flagelli, la tenaglia, la lancia, la corona di spine, il martello, il lenzuolo.

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Apre il corteo la confraternita di San Pietro, seguito dalla Confraternita dei Carmelitani Scalzi, dall’Arciconfraternita del Santissimo Sacramento, dalla Confraternita dell’Orazione e della Morte e dalla Confraternita dei Cinturiati di Sant’Agostino e Santa Monica, dal Cristo deposto dalla Croce nel sudario e dall’Addolorata, quella che quasi solitaria al mattino si era confusa nelle strade del paese alla ricerca di suo Figlio, e che adesso è lì, in alto, con il suo lungo fazzoletto tra le mani, sopra tutto un popolo che la scruta. Ecco, ci siamo, sta per cominciare un lungo epilogo tra i più imponenti e impressionanti del Meridione d’Italia. Tutte le confraternite intonano un unico, mesto, grandioso, tonante, Miserere, e lo fanno con una straordinaria forza emotiva; il viaggiatore, immerso in questo ambiente sonoro, ne coglie tutte le sensazioni e ne vive le emozioni.

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Quando si giunge nel quartiere del Carmine, si apre tra le abitazioni uno spazio che non è un luogo qualunque, ma quello che i vichesi chiamano ‘il Calvario’, dove sono disposte cinque croci, come le cinque piaghe di Gesù Cristo. È qui che tutto si ferma e si fa improvvisamente silenzio. L’arciprete davanti ad ogni croce recita le preghiere e un versetto antico, “Io ti adoro o Santa Croce, duro legno del mio Signore; io ti adoro con la voce, io ti adoro Santa Croce”. È qui, sull’ultima Croce, che una Madre ritrova suo Figlio, si avvera così quel presagio funesto del mattino; è su questa Croce a cui si aggrapperanno le mani di un popolo, con le loro domande e le loro speranze, già consapevole della salvezza ricevuta con quell’ultimo sacrificio.

Solo il tempo di girargli intorno ed ecco già i primi segni di una metamorfosi del dolore in gioia, in esultanza. Timidamente qualcuno del popolo comincia a cantare, “Evviva la Croce, sorgente di gloria”, e uno alla volta si accodano gli altri presenti fino ad arrivare alle confraternite; come un piccolo cerchio d’acqua generato da una pietruzza gettata in uno stagno, via via questo canto si allarga, si mescola, si confonde, invade tutti. Si canta tutti insieme a voce spiegata. Si canta così forte al punto che gli occhi di ognuno puntano verso il cielo.

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Questa volta non c’è ordine nel canto o rigore musicale, non c’è sequenza logica negli attacchi dei cori, non c’è un blocco sonoro facilmente percepibile, ma solo intreccio, confusione, ribaltamento, come in una grande Babele di suoni, che si rincorrono, si accavallano, si superano.

Il viaggiatore, al repentino mutare della scena e dei canti, rimarrà confuso, sconvolto, ma poi verrà travolto da questa onda che si è fatta sempre più grande: anche lui sarà inghiottito in uno dei tanti cerchi che si stanno formando spontaneamente, cerchi in cui ci si può stringere l’uno con l’altro e che qui a Vico chiamano ‘rotelli’. Ci si ritrova tutti nei ‘rotelli’, senza nessuna differenza, tutti uniti nel gridare gioiosamente le strofe dell’esaltazione della Croce, attraverso la quale si è compiuta la liberazione dalle sofferenze dell’uomo e di cui i vichesi sono già consapevoli, trasformando l’afflizione in una gioia di festa, ancor prima che il Cristo risorga nella domenica di Pasqua

Ed è così che Madre e Figlio verrano accompagnati per l’ultima volta nella processione del ritorno. Arrivati sotto una delle maestose torri di Vico, quella del castello nella piazzetta di Fuoriporta, lentamente il corteo si sdoppia: ci sarà chi accompagna l’Addolorata verso la chiesa Madre, continuando a cantare, e chi accompagna il Cristo Morto verso la chiesa di san Giuseppe. È qui che per l’ultima volta sarà eseguito il Miserere, seguito dal Respice e dal suono fragoroso dello ‘scoppo’, generato da tutti i presenti in ogni forma, battendo i piedi, muovendo una panca, facendo girare una racanella.

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È sera tardi ormai, tutti i riti volgono al termine, ma il Venerdì Santo è ancora nei suoni di questa giornata che continuo ad ascoltare nelle mie orecchie. È ancora nella mia testa dove passano i volti delle ‘Madonne’, gli sguardi stremati dei ‘Cristi’, i visi dei confratelli avvolti nei loro fazzoletti candidi. Vico non sarebbe Vico senza il suo Venerdì Santo, come il Venerdì Santo non sarebbe tale per un vichese se non a Vico. Un paese che è tutto nelle radici delle storie delle nonne, raccontate tra i vicoli stretti che si dipanano nei rioni di Civita, Terra e Casale, mentre le sue torri fanno vedetta nella vecchia cinta muraria. Vico è l’odore della legna che arde nelle maestose architetture dei suoi comignoli, è il suono lento di ogni campana delle sue chiese, è nelle mani delle mamme che impastano la farina per la pasta della domenica. Vico è nei dolci ‘sospiri’ bianchi e neri delle spose, nel profumo del suo prodotto da forno tipico ‘la paposcia’; è nel rumore degli zoccoli dell’ultimo asino che rientra dalla campagna con il dorso carico di sacchi di noci e di carrube; è nel lieto mormorio delle acque limpide selle sue sorgenti. Vico è nel faro delle Tremiti di cui si scorge il suo bagliore e nelle acque cristalline del mare di San Menaio e Calenella; è nel profumo dei fiori di arancio che con l’arrivo della primavera inebrierà le valli di questo nido chiaro d’altura, come scrisse il poeta.

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*Le foto sono di P. D’Apolito, T. Angelicchio, G. Berthoud; altre sono tratte dal web.
Immagine descrittiva - CC BY c
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